Shmuel N. Eisenstadt, Le grandi rivoluzioni e le civiltà moderne, a cura di Matteo Bortolini, Roma, Armando Editore, 2010, 256 pp.
Il primo volume della nostra collana è la traduzione italiana di The Great Revolutions and the Civilizations of Modernità del compianto sociologo israeliano Shmuel N. Eisenstadt. Seguendo l’esempio di Max Weber, Eisenstadt cerca di specificare le condizioni grazie alle quali le insurrezioni politiche si trasformano in vere e proprie rivoluzioni, cioè trasformazioni socio-politiche capaci di incidere radicalmente sulle strutture materiali e ideali delle società. Passando in rassegna i più importanti studi sulle rivoluzioni (Tilly, Skocpol, Goldstone), Eisenstadt sottolinea l’inadeguatezza delle spiegazioni monocausali di tipo psicologico e strutturale e punta a valorizzare i fattori culturali e simbolici. Secondo Eisenstadt, ciò che definiamo “rivoluzione” è una modalità specifica e improbabile di mutamento sociale, che va compresa e spiegata in quanto eccezione rispetto ad altre forme meno traumatiche di trasformazione sociale. Le rivoluzioni possono emergere dalla sintesi, sempre fragile e provvisoria, di una visione utopica e universalistica di una futura società ideale e una configurazione strutturale che assegna al sistema politico il compito di istituzionalizzare detta visione utopica nel mondo “reale”.
Eisenstadt sostiene la propria ipotesi esplicativa mediante un ampio studio comparativo che prende in esame diverse civiltà assiali e non-assiali. Proprio come nella Sociologia della religione di Weber, le spiegazioni comparative cercano di individuare non solo le diverse costellazioni di fattori strutturali e culturali, ma anche le circostanze in cui esse vengono rese operanti od ostacolate da specifici eventi e processi storici. Eisenstadt spiega, per esempio, perché le rivoluzioni non si sono verificate in civiltà caratterizzate da visioni ultramondane (come la civiltà hindu dell’India) o in civiltà in cui la visione utopica intramondana non ha trovato un sistema politico disposto a istituzionalizzarla (come nella Cina confuciana). La Meiji Ishin giapponese viene a più riprese utilizzata come contrappunto alle analisi della civiltà assiali: essendo l’unica società moderna non-assiale, il Giappone è un “caso di controllo” ideale per lo studio delle rivoluzioni. Eisenstadt mostra infatti che la cosiddetta “rivoluzione Meiji” è meglio comprensibile come la restaurazione di una narrazione culturale antichissima, priva di qualsivoglia progetto di rifondazione della società secondo una visione utopica o trascendente.
L’ultima parte del volume è dedicata alla relazione tra la modernità e la cristallizzazione delle visioni del mondo rivoluzionarie. Anche in questo caso Eisenstadt sostiene che il semplice verificarsi di eventi di tipo rivoluzionario non è sufficiente a dare origine a una società moderna e, al contempo, che l’emergere della modernità non dipende necessariamente dal verificarsi di una rivoluzione. Le rivoluzioni possono fallire nel tentativo di implementare le proprie visioni, possono incontrare ostacoli esogeni o ricadere nelle strutture societarie precedenti. Dal punto di vista weberiano adottato da Eisenstadt, in effetti, le rivoluzioni fallite sono interessanti quanto quelle riuscite, in quanto aiutano il sociologo storico a comprendere le combinazioni di cause necessarie e/o sufficienti del mutamento sociale e societario.
L’ultima parte del volume è particolarmente interessante anche per lo sviluppo di una corretta comprensione storica e teorica delle cosiddette società post-secolari. L’idea di “modernità multiple”, fulcro teorico del lavoro di Eisenstadt, è infatti indispensabile per cogliere sia le configurazioni sociali e culturali delle civiltà moderne sia la possibilità che le civiltà moderne di origine assiale si trasformino in civiltà post-assiali in cui l’annullamento della discontinuità fra trascendenza e immanenza trasforma il pensiero e l’agire utopici in reliquie del passato. Se Eisenstadt ha ragione, dunque, le prossime rivoluzioni dovranno attendere la cristallizzazione di una nuova visione utopica o il ritorno di visioni utopiche e trascendenti rimaste in qualche modo sopite (come l’Islam progressista nel Maghreb e in Medio Oriente). Grazie al protagonismo pubblico di vecchi e nuovi gruppi religiosi, etnici e culturali, le società post-secolari potrebbero essere il luogo giusto per l’emergere di tali visioni.
The first book in our series is an Italian translation of Shmuel N. Eisenstadt’s The Great Revolutions and the Civilizations of Modernity. In a truly Weberian fashion, Eisenstadt tries to trace the necessary conditions that transform political upheavals in full-fledged revolutions, that is, socio-political transformations that have profound and far-reaching effects on the material and ideational structures of societies. Reviewing current work on revolutions (Tilly, Skocpol, Goldstone), Eisenstadt notes the inadequacy of single-factor psychological and structural explanations and reclaims a stronger role for cultural and ideational causes. Eisenstadt underlines that what we call a “revolution” is a very specific and improbable type of societal change, that has to be understood and explained as an exception vis à vis other, less traumatic, forms of social transformation. According to Eisenstadt, revolutions may emerge at the intersection of the following factors: a cultural framework centered on an utopian and universalistic vision of a future ideal society and a structural configuration which assigns to the political system the task of institutionalizing that utopian vision in the “real” world.
Eisenstadt shows the viability of his explanation via a comparative effort which takes into account different Axial and non-Axial societies. Much like Weber’s own Religionssoziologie, Eisenstadt’s comparative explanations try to make sense of the different constellations of structural and cultural factors and how they are triggered or hampered by specific historical events and processes. Thus, Eisenstadt shows why revolutions did not emerge from civilizations that had a mostly otherwordly vision (such as Hindu civilization in India) or from civilizations in which an innerwordly utopian vision did not find any political system to institutionalize it (such as Confucian China). Japan’s Meiji Ishin is a constant counterpoint to the analyses of Axial societies: as the only non-Axial truly modern society, Japan is an ideal “control-case.” In fact, Eisenstadt demonstrates that what has been called the “Meiji Revolution” is, at best, a restoration of a particular interpretation of an almost timeless cultural framework that did not gave rise to any project to remake society according to an utopian/transcendent vision.
The last sections of the book are dedicated to the relationship between modernity and the cristallization of revolutionary worldviews. Here, again, Eisenstadt shows that the mere event of a revolution is not enough to create a modern society and, at the same time, is not always necessary for the emergence of modern social and cultural structures. Revolutions may fail in implementing their visions, may be contrasted by exogenous factors, may fall back to previous societal arrangements. As a matter of fact, in Eisenstadt’s Weberian vision failed revolutions are as interesting as successful ones, for they help the historical sociologist in understanding the combinations of necessary and/or sufficient causes of societal and social change.
The last part of the book is also the most interesting for the development of a correct historical and theoretical understanding of the emergence of truly post-secular societies. It is only through an appreciation of Eisenstadt’s conception of “multiple modernities” and of the complex and nuanced structural and cultural figurations of non-Axial and Axial societies that we may understand how the latter may transform themselves into post-Axial civilizations in which the annulment of the gap between the transcendent realm and the immanent one may transform utopian thinking and action in a relic of the past. If Eisenstadt was right, then, the next revolution will have to wait the cristallization of a new utopian vision or the re-emergence of utopian and transcendent visions that have been somehow muted in the past (such as progressive Islam in North Africa and the Middle East). In fact, thanks to the public protagonism of new and old religious, ethnic, and cultural groups, post-secular societies may be the perfect seedbed societies for the emergence of such visions.